Mondo

Così l’India è finita fuori mercato

Da uno dei maggiori esperti della questione agricola nei Pvs, un contributo per capire come le sovvenzioni dei paesi ricchi alla propria agricoltura alteri il mercato.

di Antonio Onorati

La ?liberalizzazione? dei mercati agricoli e della produzione agroalimentare nei Pvs (smantellamento di forme di protezione diverse e dell?intervento regolatore dell?offerta da parte dello Stato) comincia all?inizio degli anni 90, come misure assortite nei piani di aggiustamento strutturale e nei vari obblighi imposti dalla condizionalità degli aiuti allo sviluppo, e si rafforza dopo la conclusione dell?Uruguay Round con la famosa ?decisione ministeriale? di Marrakech. Si aprono le barriere per facilitare l?importazione nei Pvs di prodotti agricoli e si sostengono, facilitandole, le loro esportazioni agroalimentari. Abbiamo quindi dieci anni di esperienze di terreno su cui ragionare, dieci anni di applicazioni concrete di questa ricetta. Il caso India Vediamo che è successo negli ultimi dieci anni seguendo i dati che risultano da studi di terreno approntati per la Fao da esperti nazionali che, di norma, possono essere considerati figli della cultura neoliberista imperante, quindi non sospetti di cultura gaglioffa antiglobalizzazione (…). L?India rappresenta, da questo punto di vista, un buon esempio di una spirale perversa di povertà urbana, insicurezza alimentare, povertà rurale e malnutrizione rurale. Se il contributo dell?agricoltura al Pil era pari al 55% nel 1950 ed è solo del 25% alla fine degli anni 90 (Manoj Panda e A. Ganesh-Kumar, Mumbai – per la Fao) ancora oggi il «70 % delle famiglie rurali e l?8% delle famiglie urbane vivono di lavoro agricolo». L?India ha seguito tutti i colori delle rivoluzioni agricole: quella ?verde? del produttivismo, quella ?bianca? per la produzione del latte (con il supporto strategico dell?Unione Europea), e quella ?gialla? per lo sviluppo dell?industria degli oli da seme, molto recentemente. Malgrado l?India abbia comunque dichiarato una politica di sviluppo rivolta all?interno, le politiche liberiste in campo agricolo approntate già agli inizi degli anni 90 hanno consentito un raddoppio delle esportazioni agricole nel periodo 1996-98, con una presenza rimarchevole dei cereali che rappresentano quasi il 45%, nello stesso periodo, di tutte le esportazioni agricole. Di tutti i colori Le importazioni alimentari, però «sono aumentate nel periodo 1995-98 del 168% rispetto al periodo 1990-94». L?impatto di queste cifre sulla povertà può essere così riassunto: negli anni 80 la povertà aveva avuto una tendenza alla diminuzione, negli anni 90, che hanno visto l?applicazione di vigorose politiche di liberalizzazione, ha avuto, al contrario, una tendenza visibile alla crescita. Dice la Fao: «I prezzi delle derrate alimentari sono aumentate in modo più rapido degli altri prezzi al consumo» ma, con l?aumento delle importazioni agroalimentari, lo spazio di mercato viene occupato dalle produzioni estere, comunque concorrenziali rispetto alla produzione agricola interna. I poveri urbani hanno difficoltà ad acquistare alimenti, le produzioni locali vanno per prime fuori mercato, i contadini dispongono di meno risorse finanziarie con un evidente impoverimento crescente dei territori rurali che, infine, si trasforma in insicurezza alimentare e malnutrizione sia per quegli agricoltori che si mettessero a produrre per esportare che per quei contadini che volessero continuare a produrre per il mercato interno, comunque costretti a incrementare produzioni commerciali, uso di input di produzione e degrado delle risorse naturali a scapito del consumo diretto o locale. Insomma, per esportare frutta in Europa a prezzi competitivi con Spagna e Italia bisogna non produrre per il proprio consumo ed essere ?concorrenziali?. Modelli per ricchi E non si creda che qui stiamo parlando di agricoltura di sopravvivenza. Quello che si sostiene è che ogni Paese, definendo il proprio progetto di agricoltura e di sovranità alimentare, si trova comunque davanti alla scelta dell?estroversione o della costruzione di mercati locali e regionali. Inoltre, è fin troppo evidente che la struttura fortemente concentrata della direzione delle multinazionali agroalimentari/chimico/farmaceutico (non solo del Nord sviluppato) ma estremamente dislocata nello spazio e nel tempo delle loro produzioni agroalimentari, con l?accesso facilitato ai mercati ricchi non fa che rafforzarsi e quindi continuare nel processo di distruzione e disarticolazione della produzione agricola familiare e contadina. Materie prime agricole a bassi costi e pagate poco ai produttori locali che, in una logica di totale reciprocità tra diseguali, arrivano nella parte del pianeta dove sono concentrati i modelli di consumo alimentare ricchi ma meno sostenibili, più inefficaci ed inefficienti.


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